
Inquadramento storico
Dalla più remota antichità crocevia strategico tra Nord Europa e aree mediterranee, Verona fu presidiata militarmente in modo significativo e fortificata sin dall’epoca romana, e quindi dotata di nuove mura in epoca medioevale con la signoria scaligera, ad opera del mastro Calzaro, trovando quindi un nuovo assetto nel XVI secolo, con l’avvento della fortificazione “alla moderna” di cui fu massimo esponente da noi Michele Sanmicheli, autore dei progetti di quella Cinta Magistrale bastionata che ancora caratterizza la città, sebbene ampiamente rimaneggiata in epoca austriaca. Questo assetto fortificatorio si conservò, quasi inalterato, fino ai primissimi anni dell’800.
L’epopea napoleonica significò per Verona anni di guerre e di alterne invasioni, finché con la pace di Lunéville del 1801 Verona venne divisa in due parti e il fiume Adige segnò la linea di confine, con la riva sinistra austriaca e la riva destra francese. In spregio alla porzione di Verona rimasta in mano austriaca i francesi la definirono Veronette, toponimo che usiamo ancor’oggi.
Prima che la città fosse divisa i francesi, temendo che con un colpo di mano gli austriaci potessero riprendersela, barricandosi poi al suo interno, ne demolirono le difese, rendendo Verona una “città aperta”. Furono distrutti Castel San Felice e Castel San Pietro ed i bastioni sanmicheliani in destra Adige, capolavori dell’ingegneria militare del ‘500. Si salvarono solo i due bastioni estremi, quello di Spagna e quello di San Francesco oltre ai cavalieri e le porte monumentali.
Come tutti sanno, dopo la campagna di Russia iniziò lo sfacelo dell’Impero Napoleonico, e venerdì 4 febbraio 1814, dopo diciassette anni, sette mesi e tre giorni dal loro primo ingresso in città, i francesi lasciavano Verona per far posto agli austriaci. Per i primi 15 anni l’amministrazione austriaca non ebbe alcuna necessità di ri-costruire o costruire nuove fortificazioni, data la calma piatta imposta all’Europa della Restaurazione dagli eserciti della Santa Alleanza, pronti a reprimere qualsiasi tentativo di ribellione. L’Europa era governata, o meglio soggiogata, dalle potenze i cui sovrani si incontrarono, proprio a Verona, nel 1822, nel famoso Congresso per consolidare la loro alleanza restauratrice.
Negli anni ’20 il governo austriaco portò comunque avanti qualche progetto, destinato in partenza a rimanere sulla carta, tanto per non lasciare inoperosi gli ingegneri militari e gli stati maggiori. Nelle prime ipotesi di fortificazione era Mantova, e non Verona, ad avere il ruolo principale per la difesa del Lombardo-Veneto.
Nel 1830 scoppiò in Francia una Rivoluzione liberale; rivoluzione che porterà al potere Luigi Filippo d’Orleans, re assolutamente pacifico, ma che causerà comunque un grande allarme nel governo asburgico. Vienna temette di dovere affrontare nuovamente un’ondata di guerre controrivoluzionarie.
Consapevoli che un’invasione francese avrebbe portato a battaglie risolutive nella zona tra il Mincio e l’Adige, nacque l’idea del Quadrilatero Verona-Peschiera-Mantova-Legnago, stavolta con Verona come centro di difesa principale.
Fortificazione di Verona, “piazza di deposito e manovra” nello schema del Campo Trincerato
Nel 1831 venne inviato nel Lombardo-Veneto quale luogotenente e capo del quartier generale Radetzky che nel 1834 assunse il comando dell’esercito austriaco in Italia ed il grado di Feldmaresciallo. Si inizio a progettare la difesa dell’impero individuando in Verona il punto principale da fortificare. Sotto la supervisione dell’Arciduca Giovanni, direttore generale del genio, lo sviluppo dei piani di fortificazione venne affidato all’ingegnere Luogotenente-Feldmaresciallo Franz von Scholl, uno dei maggiori architetti militari dell’Impero austriaco.
Radetzky, l’Arciduca Giovanni e von Scholl concepirono i nuovi progetti secondo gli schemi più moderni in vigore dopo le esperienze delle guerre napoleoniche, applicando il principio del Campo Trincerato, ovvero quello di estendere le capacità difensive di una piazzaforte militare oltre il limite costituito da una cinta di mura bastionate che la racchiudevano, mediante la costruzione di linee di molteplici forti esterni alla cinta stessa, forti che dovevano darsi appoggio reciproco mediante l’incrocio dei tiri delle loro artiglierie, allontanando così le possibilità di arrivare a bombardare la piazzaforte da parte di un nemico assediante, rendendo così ben più difficile il successo di un assedio.
In particolare Radetzky voleva fare di Verona una grande “piazza di deposito e manovra”, un punto sicuro di permanenza per un grande esercito, dotato di tutte le necessità logistiche, in cui trovare riparo a seguito di grandi operazioni campali, in preparazione o a seguito di importanti battaglie in svolgimento nella cruciale zona tra Adige e Mincio.
Tuttavia questo progetto all’inizio non trovò che una parziale realizzazione a causa delle ristrettezze finanziarie dei bilanci statali imperiali, eterno problema con cui dovettero costantemente scontrarsi i progettisti a livello locale del Genio Militare asburgico, che videro sempre i loro magnifici elaborati sforbiciati e limati dalla Direzione Centrale, nel nome del contenimento dei costi.
Ci volle una guerra, quella del 1848-49, e con essa il rischio concreto di perdere le terre lombardo-venete a seguito di battaglie come quella di Santa Lucia, e magari compromettere l’esistenza stessa dell’Impero Asburgico in un frangente di rivoluzione generale in tutta Europa, con l’Ungheria in totale rivolta, per arrivare finalmente a sbloccare la realizzazione di quella Prima Cerchia esterna di forti che avrebbe reso realtà il progetto di Radetzky della grande “piazza di deposito e manovra”.
Franz von Scholl morì a Verona nel settembre 1838, a causa di una grave broncopolmonite contratta durante un’ispezione all’opera di Fortezza alcuni mesi prima, anche se il colpo di grazia potrebbe averlo dato un attacco di crepacuore per la perdita della moglie, deceduta il giorno prima, e qui è sepolto nella sezione austriaca del cimitero monumentale.
I lavori a Verona cominciarono il 1 maggio 1833, con la ricostruzione e rinnovamento della cinta magistrale bastionata nella stessa posizione di quella distrutta dai francesi, ad essa sovrapponendosi.
In seguito, dal 1837, si costruirono i primi forti esterni alla cinta, con il compito di rendere sicure zone non difendibili agevolmente dai bastioni. Sorsero così i forti collinari, per evitare aggiramenti della città da nord, come già avvenuto in epoca napoleonica, (Sofia, San Leonardo, San Mattia, Biondella, Batteria di Controscarpa, le quattro Torri di San Giuliano (toresele massimiliane), oltre al radicale rifacimento di Castel San Felice, nella nuova versione quasi forte autonomo dalla cinta collinare, pur emergendo ed appoggiandosi ad essa. E due forti in pianura, per ovviare a due punti particolarmente esposti all’esterno della mura cittadine: uno sarà lo Scholl, reso necessario dal dover rimediare all’ostacolo al campo di tiro delle artiglierie della cinta costituito dal nuovo Cimitero Monumentale, costruito a partire dal 1828, l’altro il Vorwerk St. Procolo. In questo caso la necessità era quella di colmare una depressione del terreno nella fascia antistante il Bastione di S. Procolo, che rendeva difficoltoso il tiro delle artiglierie verso un nemico che avesse occupato la posizione o la riva opposta dell’Adige. Le artiglierie dell’epoca erano ad avancarica e non erano in grado sparare in depressione, verso il basso (con angolo di tiro negativo).
Struttura architettonica del Forte San Procolo
Il Vorwerk St. Procolo, opera n. XI della difesa di Verona, fu realizzato all’esterno delle mura tra i bastioni di Spagna e di San Procolo per coprire la riva dell’Adige. Il progetto iniziale, attribuito a Franz Von Scholl, dopo la morte di questo nel 1838 verrà poi rielaborato dal successore, maggiore Johann von Hlavaty che ne curerà la costruzione negli anni 1840 e 1841. L’eccentricità della struttura architettonica del San Procolo rispetto agli altri forti veronesi è dovuta al fatto che non doveva difendere la città da un nemico avanzante ed avere quindi una precisa direzione di tiro ma era un forte “assediabile” che doveva occupare un punto strategico (l’avvallamento dell’Adige) e potersi difendere a 360°. Gli altri forti che verranno costruiti in seguito a Verona, realizzati secondo il modello poligonale misto della scuola fortificatoria neotedesca, avranno tutti una sola direzione di tiro e di difesa prevalente, rivolta verso l’esterno della città, a parte le Torri Massimiliane collinari e Turm Culoz-Forte Tombetta.
Il forte di San Procolo occupa una vasta area a tracciato ettagonale asimmetrico con un edificio centrale (ridotto) a due piani con una corte, su pianta quadrata.
Ai vertici del ridotto si trovano quattro caponiere alle quali si accede dalla galleria per fucilieri disposta sull’intero perimetro dell’opera. Due caponiere erano dedicate: una ai servizi igienici, l’altra alla cucina. Le due caponiere ai vertici opposti servivano alla difesa e come alloggi integrativi. Il ridotto centrale era chiuso con un ponte levatoio protetto da un fossato diamante.
L’opera principale del forte è costituita dall’alto terrapieno a inviluppo ettagonale, col ramparo e le postazioni di artiglieria a cielo aperto (in barbetta).
Sull’intero perimetro, il terrapieno con scarpa a pendenza naturale è difeso dal fossato asciutto e dallo spalto antistante (glacis). Il fosso è battuto da quattro caponiere casamattate, dotate di feritori per fucilieri, ai cui lati si aggiungono due ali di forma squadrata, a cielo aperto, con feritoie aggiuntive e postazioni per artiglieria. Lo scavo del profondo fossato fornì la terra per modellare il terrapieno e lo spalto.
In corrispondenza delle caponiere esterne il terrapieno è provvisto di un alto muro controterra realizzato in ciottoli di fiume. Nel fossato era presente una palizzata per la difesa del piede del terrapieno. A partire da dette caponiere quattro grandi traverse casamattate, dotate di polveriere, frazionano lo spazio del piazzale interno in quattro cortili separati spazzati dalle fuciliere delle traverse e del ridotto. Si noti che le traverse tagliavano anche gli spalti rendendoli indipendenti. Le traverse si incastrano nelle caponiere del ridotto rendendo difficile o impossibile per l’attaccante passare da un cortile all’altro, rendendo così possibile una difesa articolata. Nel fronte sudorientale dell’ettagono, verso la cinta magistrale (bastione di Spagna), era situato l’ingresso al forte, difeso da una blockhaus per fucilieri. Attraverso una poterna si accede, dal piano del fossato, al piazzale interno.
In caso di assedio la guarnigione si sarebbe divisa, e chiusa, in sei sezioni: 4 traverse più il ridotto e la blockhaus a sinistra dell’ingresso.
La guarnigione permanente era alloggiata al piano superiore del ridotto (su pavimento in legno secondo il regolamento austriaco che era molto attento alla salute del soldato)
In condizioni di guerra con il “nemico alle porte” era necessario un fucile per feritoia e la guarnigione passava dalla normale guarnigione di 230 uomini ad un presidio di emergenza di 438 soldati. Soldati che venivano alloggiati nei quattro grandi locali delle traverse e nelle due caponiere pentagonali del ridotto. Questi ambienti sono infatti dotati di camini per stufe (cucine provvisorie) e feritoie in origine probabilmente chiuse con telaietti vetrati.
I lavori iniziarono, con il terrapieno, nel 1840, data riportato sul portone di accesso al forte e completati l’anno successivo con il ridotto centrale come indicato da un’altra lapide posta sul portone del ridotto centrale.
La costruzione dei forti austriaci
A Verona esisteva in stradone Porta Palio, nell’ex convento di Santa Lucia, il Genie Direction und Fortifications Bauhof Santa Lucia, ovvero la “Direzione del genio per la costruzione delle fortificazioni”.
In questo comando vennero progettate e dirette le costruzioni di tutti i forti e fabbricati militari di Verona. Dopo l’approvazione da parte del Genio Centrale di Vienna, la costruzione veniva, di regola, appaltata ad un’impresa edile civile dopo una regolare gara e l’esecuzione avveniva sotto la supervisione di ufficiali del Genio Militare. Ci furono casi (Pastrengo) in cui la Genie Direction gestì direttamente i lavori senza impresari. Il principale appaltatore veronese fu il Cavalier Luigi Trezza di Musella arricchitosi con i commerci e con gli appalti edili e daziari. Similmente anche la fornitura dei materiali edili era soggetta a gara d’appalto pubblica.
Lo sviluppo delle fortificazioni e la presenza di un’immensa guarnigione militare portò lavoro e un relativo benessere, per gli standard dell’epoca, Verona divenne polo di attrazione per i lavoratori ed i commercianti delle provincie vicine. Come conseguenza Verona divenne la città più “austriacante” del Lombardo-Veneto, cosa riconosciuta dagli storici.
L’architettura ricercata delle fortificazioni veronesi affonda le sue radici sui revival neoclassici e neogotici che nell’Ottocento andavano di moda. In particolare, stiamo parlando del Rundbogenstil (stile dell’arco rotondo), tanto amato dai genieri militari austriaci come Von Scholl, Petrash, Bolza, Salis Soglio, Tunkler, ecc…
La tipologia costruttiva degli elementi portanti di queste magnifiche strutture è quella della muratura a sacco. Essa prevede la realizzazione di una cassaforma a perdere formata da due pareti di pietra o mattoni, dette camicie esterne, che poi venivano riempite di malta con inerti vari dal pietrisco agli scarti di lavorazione; la coesione di queste due camicie con il “sacco” interno è garantita dalla forma stessa delle pietre, sbozzate in cava e finite in loco, che venivano utilizzate oltre alla presenza di diatoni (pietre più lunghe che attraversano l’intera sezione della parete). Le camicie esterne faccia a vista fungevano anche da finitura estetica dato che erano apparecchiate ad opus poligonale, quasi un unicum nel panorama fortificatorio asburgico e figlio di quel Von Scholl che dimostrava sempre più di essere estremamente colto e attento ai dettagli addirittura meramente estetici.
Il rivestimento esterno venne realizzato con conci di pseudotufo veronese, pietra galina di Avesa, di origine fossile, a opus poligonale, generalmente pietre pentagonali di notevoli dimensioni.
L’utilizzo dell’opus poligonale era comunque strettamente legato alla disponibilità della materia prima a distanze rispetto alle quali le spese di trasporto non l’avessero reso troppo gravoso economicamente; per questo il poligonale è tipico della stragrande maggioranza delle fortificazioni di Verona città, ma ad esempio scompare totalmente già a Pastrengo e a Peschiera, dove per i forti locali si utilizza pietrame di cave più vicine e quindi meno costoso, ma anche molto più difficile da intagliare nella tipica forma a poligoni, per cui si hanno perlopiù conci squadrati.
Mentre mattoni più pregiati provenivano dalle fornaci di Mantova, anche nel Veronese era comunque presente e utilizzata una produzione industriale.
Notevole eccezione sono alcuni dei forti della Prima Cerchia, costruiti in varie riprese dal 1848, dove il paramano era invece in laterizio, mattoni rossi (i forti Radetzky, Clam Gallas, D’Aspre e Alt-Wratislaw).
Le volte sono generalmente realizzate in laterizio, o più raramente in conci di pietra, spesso con conformazione a botte; queste volte poi venivano riempite di terra sovrapposta, o sabbia a seconda se ci si trovava a contatto con l’esterno o con un piano superiore: nel primo caso la terra con spessore anche di due metri garantiva la protezione dei locali sottostanti da bombardamenti di artiglieria, riuscendo ad assorbirne e smorzarne l’impatto dei proietti anche di grosso calibro dell’epoca, rendendo la struttura “alla prova”.
L’impermeabilizzazione dei locali sottostanti le volte terrapienate era garantita da un ampio strato di bitume sempre interposto tra la sommità della volta in mattoni e lo strato di terra.
Nel caso che la volta in mattoni fosse invece intermedia tra due piani sovrapposti del forte lo strato di sabbia permetteva di allettare eventuali pavimenti in legno oltre che a stabilizzare la struttura e a permettere alla volta di lavorare correttamente in regime di compressione.
In certi casi, come per l’appunto a Forte San Procolo, vi sono anche solai piani intermedi in legno (generalmente rovere di slavonia) che venivano realizzati tramite la sovrapposizione di vari assiti e posizionati su modiglioni (mensole di pietra) che non permettevano alle teste delle travi di “bere” acqua dalla parete.
Altro dettaglio degno di nota è sicuramente la realizzazione delle polveriere delle traverse: esse sono realizzate come un vaso thermos e poggiano il loro pavimento in legno (chiodato in legno) su dei dadi di pietra, finemente lavorata, a formare un vespaio areato; il pavimento poi andava risvoltandosi sulle pareti con una intercapedine realizzata con una controparete in laterizio e poi chiusa in alto con un tetto a capanna in legno.
Vita nei forti
I forti erano presidiati da artiglieri, genieri e fanti. I fanti erano di solito tratti da reggimenti di Fanteria di Linea, reclutati nelle varie regioni dell’Impero, o anche Confinaria, questi ultimi erano i famosi “Croati”, provenienti dalle regioni balcaniche, per secoli zona di confine con l’Impero Ottomano, e in quanto tale con lunga tradizione di fedeltà asburgica, in pratica erano, fino all’epoca napoleonica, quasi militari a vita, in seguito, nell’epoca dei nostri forti del Quadrilatero, già più simili agli altri reparti di fanteria.
Compito dei fanti era soprattutto la difesa ravvicinata delle fortificazioni, attuata perlopiù con il presidio delle numerosissime feritoie presenti in ogni opera con il proprio fucile d’ordinanza, in un’epoca in cui le mitragliatrici non erano state ancora inventate o, negli anni ‘60, facevano la loro prima timidissima comparsa. Loro compito era anche il pattugliamento regolare, quotidiano, della zona negli immediati paraggi dei forti, per cui, in tempo di pace, ogni giorno uscivano dai ponti levatoi e cancelli piccole pattuglie guidate da un graduato, che al rientro facevano un sintetico, ripetitivo rapporto al sottufficiale in comando. Nelle fortificazioni poi i fanti dovevano anche essere addestrati a coadiuvare gli artiglieri, sempre in esiguo numero, soprattutto nel trasporto delle munizioni, spolette, inneschi ecc. dalle polveriere e riservette ai pezzi, e imparavano magari anche qualche rudimento del funzionamento delle artiglierie.
Gli artiglieri, addetti alla gestione dei pezzi d’artiglieria, nei forti del Qualdrilatero cannoni e mortai, erano in numero minore in quanto arma “dotta” che richiedeva un addestramento particolare ed i cui componenti venivano da apposite accademie. In questo periodo artiglieri semplici e graduati non portavano armi da fuoco, ma una corta sciabola per difesa personale. Solo i sottufficiali avevano in dotazione una pistola, come testimoniato da un regolamento del 1863.
Ancora meno erano i genieri, in numero variabile a seconda della grandezza del forte, ma che di solito non superavano le 6-7 unità nelle opere più grandi. Avevano importanti compiti di operazione e manutenzione degli apparati tecnici, come i ponti levatoi, l’illuminazione, gli apparati di telegrafia ottica. Erano armati di una versione più corta del fucile d’ordinanza della fanteria, e relativa baionetta.
In ogni forte dovevano essere presenti, oltre all’Ufficiale Comandante, e al Vicecomandante, un adeguato numero di ufficiali per tutte le tre specialità, Fanteria, Artiglieria e Genio, che oltre a occuparsi degli uomini della loro Arma dovevano coadiuvare il Comandante nella gestione dell’opera.
Il Comandante era sempre l’ufficiale con maggiore anzianità di servizio, indipendentemente dall’Arma di appartenenza.
Durante il periodo risorgimentale per i soldati del Lombardo-Veneto la leva era teoricamente di 8 anni (10 per il Tirolo e 14 per il resto dell’impero), anche se in pratica nella maggior parte dei casi la durata effettiva era di due anni, al termine dei quali però il militare era posto in congedo, tornava a casa ma era sempre soggetto alla possibilità di improvvisi richiami in servizio, in base alle necessità dell’esercito. Tuttavia soldati con gravi problemi disciplinari, disertori ecc. gli 8 anni di servizio dovevano farseli tutti, e pure un supplemento. Il reclutamento avveniva per estrazione a sorte in base agli abitanti del comune e alle necessità dei vari reggimenti. Ogni reggimento aveva reclutamento provinciale/distrettuale ed andava in base all’etnia dei soldati, anche per garantire una omogeneità linguistica. A proposito di lingua, era comunemente parlata quella nativa della truppa, che gli ufficiali in comando dovevano conoscere almeno a livello basilare, tuttavia i soldati dovevano obbligatoriamente imparare almeno circa un centinaio di comandi, parole ed espressioni in tedesco, al di là della loro lingua madre.
Il soldato riceveva 3 Kreutzer (1866) al giorno più pane e cibo e, se voleva, tabacco.
Forte Procolo durante la Guerra del 1848
Durante la prima guerra di indipendenza 1848 gli eventi bellici arrivarono vicini a Verona ed alle sue fortificazioni con la battaglia di S. Lucia ma non interessarono il Vorwerk St. Procolo. Il forte fu invece impiegato, ai primi di aprile del 1848, come luogo di prigionia. Dopo le cinque giornate di Milano gli austriaci, per garantirsi una ritirata sicura portarono con se alcuni ostaggi presi tra le più influenti famiglie milanesi, tra cui il figlio di Alessandro Manzoni, ed altri elementi di spicco della rivolta. Di questo viaggio ci ha lasciato memoria il commissario cui furono affidati i prigionieri tale Moriz von Betta nel suo libro Die Mailänder – Geiſeln auf der Feſtung Kufſtein – Gli Ostaggi Milanesi alla fortezza di Kufstein. Il Betta parla del forte come di un luogo molto umido e malsano.
—Anche l’aria che dovevi respiravi era così umida e soffocante che certamente ci saremmo ammalati tutti se non avessi deciso il terzo giorno di trasferirli nella parte superiore del forte, dove almeno era asciutto e il pavimento era di legno; poiché nella parte inferiore era di pietra e i piedi erano umidi, come fossero immersi nell’acqua.—
Racconta ancora che all’esterno del forte, fino alla riva dell’Adige, esisteva un grande accampamento militare con tende e baracche. Infatti immediatamente a ridosso del Procolo, in copertura di possibili attacchi di aggiramento piemontesi fu dislocato per qualche giorno il 1° Battaglione del I.R. 45° Reggimento di Fanteria di Linea Arciduca Sigismondo. (Era il reggimento dove prestavano servizio militare i veronesi destinati alla fanteria).
Dopo la guerra una relazione del comando del Genio, lamentava come il forte fosse arrivato allo scoppio del conflitto senza che fosse stato ancora dotato della prevista palizzata nel vallo difensivo, opera che avrebbe dovuto rimpiazzare il muro alla Carnot, mai implementato nel Procolo. La palizzata fu realizzata solo dopo la prima fase della guerra, all’epoca dell’inizio della costruzione della 1° Cerchia esterna.
Altro problema lamentato dalla relazione del Genio nel dopoguerra fu che all’epoca della battaglia di S. Lucia, maggio 1848, nel momento più critico per la piazzaforte veronese, mancavano assolutamente gli artiglieri da fortezza in numero sufficiente per dislocarli anche nel Procolo. Quei pochi che erano disponibili dovettero dividersi, oltre che sui Bastioni della Cinta Magistrale, anche tra gli altri 9 forti esterni allora presenti, soprattutto quelli collinari, e Castel San Felice. In pratica nel Procolo la guarnigione era composta di soli fanti, che avrebbero dovuto ingegnarsi, in caso di necessità, anche a usare le artiglierie del forte.
1866 passaggio di Verona all’Italia
Nell’ottobre del 1866 Verona ed il Veneto passarono all’Italia. Il passaggio non fu nè indolore nè gratuito. Una apposita commissione italo-austriaca fece un inventario di ciò che veniva lasciato e valutò il valore dei beni ed attrezzature che l’Italia ricevette e dovette pagare. Gran parte delle attrezzature dei forti, cannoni compresi, furono così acquistate dall’esercito italiano. Dall’inventario del 1866 risulta che l’armamento del forte di San Procolo consistesse solo di due cannoni da 9,5. Le concitate giornate del passaggio di Verona da Austria a Francia e da questa ad Italia furono segnate da disordini e scontri che culminarono con l’assassinio della giovane Carlotta Aschieri, uccisa con un colpo di bainetta nell’allora caffè oggi sede del negozio ad inizio via Mazzini, ad opera di soldati triestini del reggimento IR 22 Wimpffen (reclutato tra Friuli e Trieste). Questo reggimento che lasciò Verona tra gli ultimi, solo il 13 ottobre, era così alloggiato:
II° Batallion – San Zeno und Camponi Kaserne.
III° Batallion: – Fort Hess und Erdwerk Procoli
Il periodo italiano
Nel 1866, quando il Regno d’Italia entrò in possesso di Verona, si levò un partito che chiedeva l’abolizione delle servitù militari e la demolizione dei forti e delle mura. Dall’altra parte una fazione di militari e politici erano convinti che, al contrario, la piazzaforte veronese andasse conservata e potenziata. Questo vigoroso quanto sterile dibattito si trascinò, tra interrogazioni parlamentari e articoli giornalistici, fino agli anni ‘70 inoltrati. Ma Verona era divenuta sede di Corpo d’Armata (Palazzo Carli) a cui capo era stato posto il generale Giuseppe Salvatore Pianell. Il Pianell si oppose fermamente alla smilitarizzazione di Verona anzi, posto a capo di una specifica commissione sulle Servitù Militari, richiese, ottenne e pianificò il potenziamento della piazzaforte di Verona. Pianell era convinto che il Veneto sarebbe stato il campo di battaglia di una futura inevitabile guerra con l’Austria e, non solo conservò l’efficienza delle esistenti difese, ma le aumentò con la modifica e potenziamento del campo fortificato di Rivoli nonché con la costruzione dei forti a nord-est della città: San Briccio, Castelletto, Monticelli, ecc. Il forte di San Procolo, impiegato come fortezza sino al 1897, fu arricchito di elementi come una polveriera e riservette in muratura sui terrapieni. Quindi, ormai obsoleto a fronte del continuo progresso delle artiglierie e degli esplosivi, venne in seguito declassato a magazzino dell’esercito, con varie modifiche e superfetazioni.
Le guerre mondiali
Durante la prima Guerra Mondiale dal 1915 forte San Procolo, insieme a Castel San Felice, venne impiegato come luogo di detenzione per prigionieri austro-ungarici, fino alla firma di tutti i trattati di pace nel tardo 1919. Qui i prigionieri venivano concentrati ed interrogati. Il suo più illustre “ospite” fu il generale Ignaz Verdroß von Droßberg, comandante dei Kaiserjäger sul fronte trentino. Catturato con tutto il suo stato maggiore a Trento il 3 novembre 1918, penultimo giorno di guerra, venne internato dapprima al Procolo per poi passare in seguito in altri campi, venendo rilasciato nell’agosto 1919.
Tra le due guerre il forte fu ancora una volta impiegato come caserma. Di questo periodo rimangono due targhe di intitolazione dei cortili del forte; quella esterna alla “Battaglia del Solstizio”, quella nella corte del ridotto al “Piave”. Rimangono inoltre scritto che identificano le camerate, ferri porta zaini e graffiti lasciati dei soldati che qui passarono la naja.
Nel 1916, su progetto dell’Ing. Giuseppe Monga, si iniziò la costruzione del poligono di tiro a segno che comportò lo spianamento di parte delle sue opere in terra sul lato orientale. Il campo di tiro a segno fu completato, inaugurato, ed entrò in funzione solo nel 1921.
Nel gennaio del 1944 nell’adiacente poligono di tiro, e assolutamente NON nel Procolo come di continuo erroneamente ripetuto, furono fucilati Ciano ed i gerarchi fascisti “colpevoli” del tradimento del Duce.
Il forte nel dopoguerra
Sulla vasta area a sud del forte rimasta da sempre “spianà” a partire dagli anni 50/60 venne e edificata la caserma Martini, composta da più edifici distribuiti tra il forte e la Circonvallazione Colombo. Nel primo dopoguerra la caserma Martini / Forte San Procolo divenne sede del CI° battaglione carri, del 31° Reggimento della Divisione Centauro, alle dipendenze del IV° C.d.A, e dove rimase fino allo scioglimento che avvenne il 31 dicembre 1963.
A questo periodo, anni ‘50 e ‘60, in seguito all’utilizzo dei carri armati nell’area del forte si può, molto probabilmente, fare risalire lo spianamento parziale del terrapieno per l’apertura del nuovo ingresso da Via Da Levanto, con conseguente interramento della caponiera, dato che sarebbe stato problematico fare transitare carri armati e altri mezzi pesanti dalla poterna dell’ingresso originale. Di questo periodo, proprio sul nuovo ingresso è anche la rampa in cemento per la manutenzione dei carri.
Sul terrapieno del forte venne ricavata una scalinata alla cui sommità venne posto un gruppo monumentale in memoria dei carristi costituito da un cippo in marmo bianco affiancato da un semovente M41 da 75/18.
Il cippo era un alto parallelepipedo in marmo bianco, che risaliva a poco prima della guerra ed era in origine collocato alla caserma Pianell (32° Rgt carri) per ricordare alcuni caduti della guerra di Spagna. Con lo scioglimento del CI° Btg., divenuto il III / 32° e trasferito in Friuli, il semovente finì, sembra, a Maniago mentre il cippo a Tauriano, ove è tuttora esposto. La caserma Martini / Forte San Procolo ospitò poi la 4 O.R.M.E. – Officina Riparazione Mezzi Esercito, e gli Uffici del consiglio di leva, fino agli anni novanta dopo di che il forte venne abbandonato alla più totale incuria. In seguito il sito venne in parte stravolto dalla costruzione di alloggi militari ed il forte passò dal demanio militare a quello civile cui ancora appartiene.
Il recupero del forte
A partile dal 2018 l’associazione “Verona Città Fortezza Aps” ha iniziato l’opera di pulizia e mantenimento del forte.
Sono qui mostrate le immagini “Before and After” – “Il prima e il dopo” dei lavori di pulizia che i nostri soci di hanno realizzati in questi anni.
Ma il lavoro non si ferma: la conservazione del sito, la sua manutenzione richiedono un impegno costante che portiamo avanti con immutata passione
Vista aerea del forte.
Cortile Piave – interno al ridotto.
Cortile Piave volto dell’ingresso.
Poterna di ingresso al forte.
Caponiera. Muro di contenimento.